Tintin in Congo, la seconda avventura
di Tintin,
è stata da poco pubblicata nella collana della Gazzetta dello Sport, realizzata
in collaborazione con Rizzoli Lizard. Fra le ventiquattro storie del reporter
con il ciuffo create da Hergé, quella
africana è la più popolare dopo Tintin in America, con più di 10 milioni di copie
vendute. Pur essendo, forse, la più insulsa, ha influenzato molto gli autori
africani di bédé, zairesi soprattutto, ma anche scatenato le maggiori critiche.
Il motivo è semplice, il racconto e il suo autore sono stati accusati di
razzismo, rei di ridicolizzare il popolo africano. Un problema serio, dunque,
che fa il paio con le ricorrenti accuse rivolte all’autore per un presunto
collaborazionismo con i nazisti durante l’occupazione del Belgio.
Nel
1930, dopo il primo episodio che si svolge nella Russia sovietica, Hergé vorrebbe ambientare la storia
successiva in America fra i Pellirosse ma l’abate Norbert Wallez, suo datore di lavoro, è contrario perché vuole
mostrare positivamente l’operato dei missionari cattolici nel Congo belga in
modo da favorire nuove vocazioni che contribuiscano a evangelizzare popoli
legati ancora all’animismo, o almeno da incoraggiare una vocazione coloniale
nei giovani lettori. L’autore è costretto a desistere e, controvoglia, invia Tintin e
Milou nella colonia belga. Tale imposizione rende, forse, il racconto il meno avvincente
e convincente fra quelli ideati dall’autore, soprattutto nella successiva
versione a colori.
Tintin
in Congo fa parte, dunque, del primo periodo delle opere di Hergé, con trame ingenue e disegni ancora
pupazzettistici, con un Tintin
disegnato ancora senza bocca e con una descrizione caricaturale del paese e dei
suoi abitanti, secondo i canoni dell’idea colonialista che gli europei avevano
all’epoca sul continente africano e sulle sue popolazioni.
La
supremazia della civiltà dell’uomo bianco su quella africana in generale, con i
bianchi in veste paternalistica di maestri, che, investiti da una missione
civilizzatrice divina, dovevano aiutare i “poveri negri” ad abbandonare il
proprio modo di vita ultrasecolare per accettare quello europeo, estraneo alla
loro cultura, anche se imposto non sempre con metodi pacifici. Il tutto per
sottometterli e sfruttare le ricchezze delle loro terre.
In
effetti il racconto di 110 pagine in bianco e nero, pubblicato dal giugno 1930
al giugno 1931 su Le Petit Vingtiéme,
presenta Tintin nelle vesti del bianco paternalista, salvatore dei
neri, tutti disegnati da Hergé alla
stessa maniera, indistinguibili gli uni dagli altri, con labbra grosse, esageratamente
sempliciotti, a volte anche pavidi o indolenti.
Sono
vestiti in maniera buffa, a metà fra il selvaggio e l’occidentale come si
evidenzia nelle foto dei congolesi dell’epoca, e parlanti in “negrese”.
L’abate
Wallez ricorre a tutti i mezzi per sostenere la sua rivista, per cui, sfruttando
l’esperienza di Hergé nel campo
della grafica pubblicitaria, utilizza il personaggio simbolo per fare
pubblicità ai grandi magazzini bruxellesi Au
Bon Marché, come nella copertina in cui è scritto che Tintin, prima di partire per il
Congo, è passato in quel magazzino per acquistare l’equipaggiamento!
Il
successo ottenuto anche da questa avventura spinge Wallez a ripetere quanto fatto un anno prima con Tintin au pays de
Soviets:
il
9 luglio 1931 pubblica la storia in un volume cartonato, intitolato Le aventures de
Tintin reporter du “Petit Vingtiéme” au
Congo.
E
per incrementarne le vendite organizza un’operazione commerciale: fa uscire un
supplemento speciale in cui invita i lettori a recarsi nel pomeriggio presso la
Gare de Bruxelles-Nord, per incontrare il reporter in carne e ossa, che rientra
dal Congo.
E dalla
stazione i giovani convenuti vedono uscire Tintin con Milou scortato
da figuranti di colore, seguiti da due ragazzi che impersonano Quick e Flupke, gli altri due personaggi creati da Hergé.
Poi,
dal balcone centrale dell’edificio del Vingtiéme Siécle, sito in boulevard Bischoffsheim 11, Tintin, impersonato dal giovane Henri Dendoncker, vestito con sahariana
e casco coloniale, con a fianco l’autore, saluta la folla di giovani accorsa
per vederlo. Così Tintin entra nella
leggenda! Il successo di vendite permette a Hergé di firmare un contratto più sostanzioso con il quotidiano di Wallez.
Nel
1934, Louis Casterman di Tournai diviene
il nuovo editore delle storie di Tintin,
per cui il volume esce nel 1937 in versione identica alla precedente, con una
nuova immagine in copertina, con l’aggiunta di illustrazioni fuori testo e la
soppressione di qualsiasi riferimento al periodico di Wallez.
Nel
1946, Hergé, aiutato da Edgar P. Jacobs e da Alice Devos, ridisegna completamente
l’episodio, riadattandolo in 62 pagine a colori: le tre strisce per pagina
pubblicate sul Petit Vingtiéme sono portate a quattro.
La
nuova versione, ridisegnata nello stile grafico della Linea Chiara, perde quell’aspetto datato che caratterizzava la
prima versione in bianco e nero, mantenendo però le trovate e le gag. I testi sono
riscritti eliminando ogni accenno alla colonizzazione belga, censurando frasi
in odore di razzismo per attenuare l’atmosfera colonialista della precedente
versione.
Anche
i dialoghi degli africani in un francese elementare sono riscritti acquistando
nettamente in chiarezza. In tal modo l’episodio può essere pubblicato da Casterman nella sua collana di volumi
cartonati.
C’è,
però, un anacronismo nella nuova versione, la presenza nella prima vignetta dei
due poliziotti Dupond e Dupont, che invece appaiono per la
prima volta nel quarto episodio. Si tratta di un espediente di Hergé per permettere la lettura anche degli
episodi precedenti a quando inizia a creare un universo di personaggi che
affiancheranno il reporter, senza rispettare la cronologia! Nella medesima
vignetta, tra gli altri, sono ritratti anche Hergé, Jacobs e Jacques Van Melkebeke, i tre
moschettieri artefici della rinascita di Tintin e della
nascita dell’omonimo settimanale.
Nonostante
le correzioni apportate dall’autore, in quegli anni di decolonizzazione
africana e di indipendenza di molte nazioni, fra cui il medesimo Congo, le accuse
di veicolare pregiudizi razzisti inducono l’editore Casterman a non ristampare più il volume per non contrariare gli africani.
Curiosamente
sono gli stessi congolesi che lo riportano in vita, pubblicandolo nel 1969
sulla rivista Zaïre. Però con un
avvertimento per i lettori, che quello descritto da Hergé è il Congo de papa,
anzi del Grand papa, cioè del nonno,
un modo per dire che si tratta di una descrizione fantastica e antiquata di un
paese che non esiste più! Per il giornalista congolese il Congo è una sorta di
paradiso terrestre, l’Eden tanto agognato dall’uomo bianco, dove si riscopre
l’umanità fraterna, soprattutto nelle sue genti. I buoni sono i congolesi e i
cattivi sono i bianchi, pur con l’eccezione del generoso Tintin.
Il
redattore di Zaïre afferma che i
bianchi che hanno bloccato la pubblicazione di Tintin au Congo non hanno capito una
cosa fondamentale: se la storia fa sorridere un lettore bianco, essa fa ridere
di più i congolesi quando scoprono come erano visti i propri antenati dai
bianchi, e conclude affermando che sarebbe ingiusto condannare questa
rappresentazione del loro paese, verso cui l’eroe di carta dimostra, tutto
sommato, molta tenerezza. Tale interpretazione stupisce molto Hergé e spinge Casterman a ristampare il volume nel 1970.
In
molti paesi europei, sensibili sull’argomento coloniale in quanto colonialisti
nel passato, il volume ha scatenato diatribe sull’opportunità o meno di
rimettere in circolazione il racconto.
L’autore,
da parte sua, ha fatto più volte un mea culpa, definendo il racconto un peccato
di gioventù, senza pretese, disegnato con molta incoscienza e senza alcun
sottofondo razzista, una fantasia dettata da ignoranza sull’argomento. Ha
sempre aggiunto di essere consapevole del problema sollevato e che, ovviamente,
da adulto lo avrebbe rifatto in maniera completamente diversa.
Il
racconto rimane in sordina fino al 2007 quando il mondo anglo-sassone riscopre
l’universo di Hergé sull’onda
dell’interesse dimostrato dal regista Steven
Spielberg per Tintin.
E
mentre alcuni lo demonizzano, altri lo difendono, fra questi il disegnatore di
fumetti congolese Barly Baruti che, nel
1980, incontra l’autore belga per uno stage di introduzione alla Linea Chiara. La Commissione britannica
per l’uguaglianza razziale taccia l’opera di razzismo e per precauzione, in
Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda è classificata per adulti. Negli USA in
alcune biblioteche il volume è ritirato dagli scaffali, mentre il Sudafrica
obbliga l’editore ad aggiungere una fascetta rossa sulla copertina per
avvertire i lettori che il racconto è stato scritto negli anni Trenta secondo
gli stereotipi paternalisti e borghesi dell’epoca, ma che in fondo si tratta di
un racconto divertente e nulla più.
Sono
prese di mira anche le scene violente in cui gli animali della savana congolese
sono “sterminati” dal reporter, soprattutto laddove fa una strage di gazzelle e
distrugge un rinoceronte con la dinamite, scena, quest’ultima, eliminata, poi, nel
1975 da Hergé su pressione di Bonnier Carlsen, editore svedese di Tintin.
Ma
con lo stesso metro di giudizio andrebbero vietati l’Uomo Mascherato (The Phantom)
di Lee Falk e Ray Moore, il famoso giustiziere in costume, antenato dei
supereroi, che dal 1936 amministra la giustizia in un Africa di fantasia e il
celeberrimo Tarzan di Edgar Rice Bourroughs!
Nel
2010, per le Éditions Moulinsart, Daniel Couvreur scrive Tintin au Congo de papa, un pamphlet sul
controverso racconto e sulle conseguenti diatribe scatenate dalla sua
pubblicazione.
Prima
di esprimere giudizi da parte nostra, però, sarebbe meglio riflettere un
momento sui tempi e sull’autore, un giovane belga di 23 anni, cresciuto negli Anni
Venti nell’ambiente dei boy scout cattolici di un paese colonialista, che non
ha viaggiato e che deve descrivere un paese lontano migliaia di miglia dal suo
e di cui non sa niente. Le uniche informazioni disponibili per lui sono quelle
reperibili su riviste, su resoconti di viaggi, spesso non veritieri, su
documenti propagandistici o ricavate da visite al Musée Royal de l’Afrique Central a Tervueren, a pochi km da
Bruxelles. In più, all’epoca è imperante la concezione sull’uomo bianco
portatore di civiltà ai popoli colonizzati.
Sull’interessante
testo redazionale che accompagna il volume della Gazzetta sono riportati esempi
di racconti disegnati da altri autori coevi che rappresentavano gli africani nella
medesima ottica caricaturale, e quindi, perché Hergé avrebbe dovuto discostarsi da quella tendenza? Quale descrizione
alternativa di quel paese sconosciuto e dei suoi abitanti poteva proporre?
Considerato
offensivo da molti africani, il racconto è arrivato anche nelle aule
giudiziarie, con sentenze, come quella del 2007 della Corte di Stoccolma, che ha
rigettato la denuncia di uno svedese di origine congolese, sostenuto
dall’Associazione degli Afro-svedesi, contro l’editore Carlsen
o quella
della Corte di Appello di Bruxelles, gentilmente inviataci dall’amico Francesco Lentano, cultore
dell’argomento “la giustizia nei fumetti” e autore del saggio Giustizia a strisce (2015). Nel 2010, infatti,
Bienvenue Mbutu Mondondo, uno
studente congolese di scienze politiche a Bruxelles, ha chiesto il ritiro dal
commercio del volume Tintin au Congo e
il pagamento delle spese giudiziarie alle Éditions
Casterman e alla Moulinsart S.A..
La Corte di Appello di Bruxelles, saggiamente e anche un poco
campanilisticamente, data l’alta considerazione che si ha in Belgio per il
personaggio e per il suo autore, nel 2012 ha rigettato la richiesta del signor Mbutu Mondondo, obbligandolo a pagare
110 euro a Casterman e Moulinsart.
Ha
ragione Benoit Peters, biografo di Hergé, quando sostiene che Tintin au Congo,
avendo una dimensione più paternalistica che razzista, non può essere separato
dal passato coloniale degli Anni Trenta e dalla propaganda dell’epoca, che era
molto più dura di questo fumetto.
Roger Bongos,
un giornalista congolese che vive a Parigi, sostiene che il racconto di Hergé fa parte ormai dell’immaginario
del suo paese, perché aiuta a ricordare la loro storia sotto il colonialismo e anche
se il racconto è discriminante per il suo popolo, ammette che però l’autore non
è razzista
Forse,
una soluzione corretta e rispettosa per il popolo africano sarebbe quella di inserire
prima del fumetto un breve testo esplicativo che lo contestualizzi, spiegando ai
lettori poco esperti in storia che si tratta di un racconto comico, disegnato
in un momento particolare della storia congolese, da un autore cresciuto nella
nazione europea che in quel momento stava colonizzando il Congo e che quindi
rispecchia il modo, sicuramente errato, in cui gli europei immaginavano che
fossero gli africani. Questo non sminuirebbe affatto l’importanza o l’integrità
del lavoro di Hergé, anzi aiuterebbe
a inquadrare meglio il racconto.