Pagine

venerdì 23 ottobre 2015

Tintin a Machu Picchu - seconda parte



Un aneddoto su Hergé racconta che durante la presentazione del volume Le Temple du Soleil, pubblicato nel 1949, a un ammirato ambasciatore peruviano che gli chiedeva quando fosse stato in Perù, l’autore abbia risposto di non esservisi mai recato.



Per la documentazione iconografica, infatti, il creatore di Tintin ha contattato collezionisti privati e ha inviato il suo collaboratore Jacobs a fare ricerche su quella civiltà andina nella biblioteca dei Musei Reali di Arte e di Storia di Bruxelles. Gli schizzi preparatori sono stati eseguiti in maniera piuttosto disordinata da Jacobs, provocando nel racconto approssimazioni che hanno sollevato in seguito le proteste degli americanisti specialisti nell’era precolombiana. Quegli studi sono stati poi utilizzati dal medesimo Jacobs per L’Énigme d’Atlantide.


I testi su cui si è basato Hergé sono:
il libro Perou et Bolivie: Récit du voyage (Hachette 1880) dell’eminente esploratore e archeologo austriaco Charles Wiener, e il resoconto illustrato L'Empire du Soleil, Pérou et Bolivie (1909) del barone Conrad de Meyendorff. Perché Hergé ha utilizzato un libro stampato più di 60 anni prima, quale quello di Wiener? La risposta risiede nella ricca iconografia del volume, molto utilizzata dal creatore di Tintin.


Altra fonte è stato il National Geographic Magazine del febbraio 1938, contenente un articolo con molte foto intitolato The Incas: Empire Builders of the Andes, firmato da Philip Ainsworth Means,



e In the realm of the sons of the Sun (Incas), 8 illustrazioni dipinte a colori da Herbert M. Herget (nomen omen), un illustratore del National Geographic Magazine specialista in ricostruzioni sulla vita quotidiana di civiltà del passato.


Fonti ispirative per la trama potrebbero essere stati il romanzo L’Épouse du soleil (1913) di Gaston Leroux e Le Maître du Soleil (1942) di René-Marcel De Nizerolles, pseudonimo di Marcel Priollet, prolifico scrittore di romanzi d’appendice noto per il suo personaggio Justin Blanchard, soprannominato Tintin le petit Parisien (1911); il racconto di De Nizerolles presenta molti punti in comune con quello di Hergé.


In ogni caso sembra che l’idea per la storia gli sia stata suggerita dal clamore della “presunta” scoperta nel 1911 dello spettacolare sito archeologico andino di Machu Picchu a opera dello statunitense Hiram Bingham. Presunta perché in realtà le rovine della cittadella non erano perdute, in quanto abitate all’epoca da due famiglie di contadini ignari della sua grande importanza storico-archeologica e perché visitate in precedenza da altri ricercatori locali.


Benché perfezionista e maniacale nella documentazione per le sue storie, in realtà il creatore di Tintin ha erroneamente inserito nel racconto elementi di varie culture precolombiane del Perù e della Bolivia. Purtroppo gli errori sono già insiti nelle immagini di Herget, utilizzate da Hergé per alcune vignette, in cui ha riprodotto inconsapevolmente anche gli errori realizzati dall’artista statunitense. Forse, l’autore belga non era sufficientemente informato sulla complessa evoluzione delle varie culture andine di cui, all’epoca, si sapeva ben poco!


Nella prima parte, intitolata Les Sept Boules de cristal, il racconto si svolge in Europa.


Tintin, Milou, il capitano Haddock e il professor Tournesol vanno a trovare Hippolyte Bergamotte, settimo membro di una spedizione archeologica che ha riportato alla luce la mummia di Rascar Capac “colui-che-scatena-la-folgore”. Il nome ricorda quello di Huascar Càpac, ultimo sovrano Inca di Cusco, fatto uccidere dal fratellastro Atahualpa, signore di Quito, nella tragica guerra civile che dilaniò il vasto l’impero inca, chiamato Tahuantinsuyo (Le Quattro regioni unite), e che facilitò la conquista da parte spagnola.


Non esiste una maledizione Inca, su cui si basa la trama, creata da Hergé con la complicità di Jacobs e Jacques Van Melkebeke, sicuramente oggi esiste il soroche o mal di montagna che colpisce i turisti non abituati alle altitudini andine, combattuto solo con la masticazione delle foglie di coca e l’assunzione di diuretici. In ogni caso la maledizione di Rascar Capac di cui si parla nel primo episodio sembra copiata, verosimilmente, da quella egizia del faraone Tutankhamon, che Jacobs ha sapientemente sfruttato in seguito anche per Le mystére de la Grande Pyramide.


Interessante la posizione fetale della mummia di Rascar Capac disegnata da Hergé,  corrispondente alla realtà. I popoli andini credevano che la morte fosse un prolungamento naturale dell’esistenza nell’aldilà e che i defunti continuassero a vivere come entità spirituali nei corpi mummificati; per tale motivo ritenevano che il corpo, intatto, del defunto dovesse essere messo nella medesima posizione della nascita terrena, nei loculi trapezoidali lungo i muri degli edifici, oggi visibili nei vari siti archeologici andini, dove si mummificavano grazie alle aspre condizioni climatiche dell’altitudine, o in fosse scavate nel terreno, per essere a contatto con Pachamama, la Madre Terra da cui proveniamo tutti, secondo le credenze andine.


La mummia, i cui ornamenti richiamano quelli di altre similari, è copiata da una trovata nella zona di Paracas, sede di una cultura preincaica.


Paracas è famosa anche per i ritrovamenti di numerosi teschi allungati che tanto incuriosiscono i cultori di xenoarcheologia o archeologia spaziale, visibili nel Museo Arqueologico Antonini di Nasca.


Le mummie degli Inca erano situate bene in vista dello splendido Corikancha (Tempio del Sole) a Cusco, capitale del Tahuantinsuyo e centro dell'Universo secondo la cosmovisione andina, mentre quelle dei nobili e del popolo erano posizionate negli altri edifici o in fosse circolari scavate nella terra. Le rovine del Corikancha sono ancora visibili nel convento di Santo Domingo, compresa una pietra a L con 12 angoli perfettamente incuneata fra le altre, senza spazi fra le superfici di contatto con le altre pietre, come solo la misteriosa e incredibile conoscenza degli ingegneri inca sapeva fare.


Il fulmine, un poco burlone, disegnato nell’immagine della copertina e che nella tavola n.31 disintegra la mummia di Rascar Capac sembra avere una base di realtà.


In un’ala del museo Santuarios Andinos di Arequipa, dedicata ai recenti ritrovamenti di mummie di giovani sacrificati in alta quota sulle montagne (fra cui la famosa "vergine dei ghiacci” Juanita, mantenuta a -40 gradi), sono esposti gli abiti indossati dai niños del rayo giovani vittime così soprannominate per le bruciature provocate dai fulmini; ci sono anche  le foto di un cranio infantile con i fori causati da ripetuti fulmini che si erano accaniti contro quell’infelice corpicino. Si tratta di scoperte archeologiche recenti, che né Hergé né altri all’epoca hanno avuto la possibilità di conoscere.





4 commenti:

  1. le quattro vignette della mummia a quali edizioni appartengono?

    RispondiElimina
  2. La prima è la versione apparsa su Le Soir (striscia di sabato 15 aprile 1944), l'ultima quella nell'album sin dalla sua prima edizione del 1948 a colori. Le due intermedie sono studi per la preparazione dell'album (aggiunta di capelli e piume, modifica del copricapo e dettagli minori).

    RispondiElimina
  3. Ormai la guerra stava finendo con la sconfitta della Germania ed Hergé, in questa storia, ha prudentemente messo da parte il filonazismo e l'antisemitismo manifestato più o meno direttamente nelle precedenti.

    RispondiElimina